Da un'intervista di Grazia Lissi |
Grazia Lissi | 31-03-2007 | Da La Provincia |
Luigi Pagano è nato a Napoli nel 1954. Si è laureato in Legge con Alfredo Paolella, ucciso da Prima Linea. Pagano esordisce con una tesi di specializzazione in criminologia sulle misure alternative alla detenzione e sull’importanza del rapporto esterno. Nel ’78 partecipa al concorso per diventare Direttore Amministrativo degli Istituti Penitenziari. Dall’89 al 2004 è stato Direttore del carcere di San Vittore a Milano. Dal 2004 è Direttore del Provveditorato dell'Amministrazione Penitenziariaper la Regione Lombardia. Per 15 anni ha diretto il carcere di San Vittore: «Anche dietro le sbarre c’è umanità, ci sono buoni e cattivi» |
Erano i giorni del rapimento Moro quando Luigi Pagano partecipò al concorso per Direttore Amministrativo degli Istituti Penitenziari. A venticinque anni ebbe il primo incarico, Direttore del carcere di Pianosa, a trentacinque, direttore del carcere di San Vittore a Milano. Un inizio coraggioso in anni bui, una laurea in legge, tesi in antropologia criminale con Alfredo Paolella, fautore della riforma penitenziaria del 1975, ucciso nel ’78 da Prima Linea. Dal 2004 Luigi Pagano è Direttore del Provveditorato per la Regione Lombardia dell’Amministrazione Penitenziaria.
Che luogo dovrebbe essere il carcere: di punizione o rieducazione?
Non credo che il carcere possa affrancarsi dal suo naturale essere un luogo punitivo. Il concetto di rieducazione è stato aggiunto pensando a una pena ideale, non a quello che si andava a realizzare in concreto. Il carcere può isolare, evitare che uno commetta reati finché è dentro, ma non credo che il reinserimento sia perseguibile attraverso una pena che ha nel suo Dna l’isolamento dalla società. Tanto vale usare il carcere solo per i reati più gravi, per altri dobbiamo immaginare qualcosa di più efficace ed economico.
Come è diventato direttore di un carcere?
Mi è sempre piaciuto capire i reati nelle radici, comprendere perché succedevano certe cose. Sono nato a Napoli, questo aiuta, sai di dover fare una scelta: di qua o di là.
Cosa distingue la giustizia dalla vendetta e dalla rivalsa?
Il confine è labile, ma temo che quando si invoca più carcere prevalga l’istinto della vendetta. Si ricorre a una pena che spesso non porta da nessuna parte, soddisferà il nostro istinto ma non serve alla società. La giustizia dovrebbe essere più costruttiva con riguardo anche agli interessi della vittima, della società, senza accontentarsi di sapere il reo in carcere. Inoltre molti pensano alla sola giustizia retributiva, che interviene a punire il reato, dimenticandosi di quella sociale, distributiva, evocata dall’art. 3 della Costituzione che chiede di rimuovere "gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana". Se fallisce questa giustizia, fallisce anche l’altra.
Secondo lei cosa chiedono gli italiani al carcere: giustizia, sicurezza, difesa?
Sono istanze legittime che tutti vogliono, detenuti inclusi, va capito come raggiungerle. Il carcere presenta molti limiti, spesso chi esce è più pericoloso perché l’esperienza carceraria non l’ha aiutato; poi mi chiedo: è possibile che una struttura possa contemporaneamente isolare e reinserire nel contesto sociale? Illudersi di trasformare il carcere qualcosa d’altro significa renderlo inefficace anche per i compiti che saprebbe fare meglio. Non lo vedo utilizzabile per qualsiasi tipo di infrazione: se dobbiamo pensare alla rieducazione e siamo convinti che questa significa sicurezza sociale, allora dobbiamo trovare, per alcuni reati, sanzioni penali diverse dal carcere.
Che volto ha Caino?
I fatti degli ultimi mesi ci dicono che potrebbe abitare abitare la porta a fianco,vive insieme a noi e, come Dr Jekyll e Mr Hyde, essere chiunque; il male è in noi tutti e non sai se, quando e in chi scoccherà la "scintilla" del passaggio all’atto. Se beghe di condominio portano una coppia, senza passato criminale, ad ammazzare un bambino, capiamo che le nostre letture e convinzioni sono un po’ datate o sopravvalutate. Il nostro giudizio interviene dopo il fatto, siamo bravi a spiegare cosa è successo... dopo!
Le carceri italiane stanno diventando luoghi multietnici, con quali problemi?
Per l’ingresso di molti immigrati senza permesso di soggiorno, con pene brevi da scontare, il carcere è diventato una grande comunità. Molti servizi "sociali" oramai vengono resi dal carcere: ad esempio gli interpreti, i mediatori culturali. Nei primi anni c’era il problema della lingua, non riuscivamo a interpretare quello che succedeva, l’alzare le voci, il gesticolare; magari per una discussione ordinaria qualche agente poteva pensare a una rissa in atto e interveniva a sedare ciò che non era successo. Non riuscivamo a garantire agli extracomunitari una vita di relazione, non potevano avere colloqui o telefonare, né esercitare molti dei diritti previsti. Oggi qualcosa è cambiato, ma temo che molti restino in carcere, indipendentemente dalla pena, senza ottenere misure alternative alla detenzione in quanto non possono dimostrare di avere una casa o un lavoro ufficiale.
Abbiamo bisogno di più o meno clemenza?
Abbiamo bisogno di giustizia, si è costretti alla clemenza perchè non riusciamo ad applicare in termini immediati la giustizia. Conosco detenuti che hanno atteso14 anni la sentenza, ma dopo tanto tempo la persona è la stessa che ha commesso il reato? In questi casi in cui la giustizia è venuta meno ci vorrebbe clemenza. Le nostre carceri fino all’agosto 2006 avevano 20.000 persone in più, era una pena aggiuntiva, non si riusciva nemmeno a dare un posto letto. Non è scritto da nessuna parte che i processi debbano durare decenni o che in una cella per 2 persone tu ne debba mettere 4, 6, 8, ammassati come cose; prima di pensare che la pena debba essere rieducativa (in queste condizioni vorrei vedere com’è possibile) ricordiamoci che non deve ledere la dignità umana. È un circolo vizioso: i detenuti non escono, il loro mantenimento costa e assorbe le risorse impiegate dal Ministero di Giustizia sottraendole ai procedimenti, i processi ritardano e così via.
Il carcere è anche un luogo per gli operatori. Quali difficoltà avete?
Il carcere viene isolato in blocco, detenuti e detentori. E’ una realtà davanti alla quale la gente chiude gli occhi. È un brutto mestiere il nostro, non dico la professionalità, ma spesso la gente ci nega anche la nostra umanità, invece nelle carceri ce n’è dell’una e dell’altra e non se ne parla, come non si parla dei piccoli atti di eroismo che ogni giorno la polizia penitenziaria compie. C’è un luogo comune in letteratura o al cinema: prima dell’arresto le forze dell’ordine sono i buoni e i criminali i cattivi, dopo i cattivi diveniamo noi. Cosa vuole farci? Fuori il mondo è a colori, qui solo in bianco e nero.
Qual è la situazione delle carceri di Como Sondrio Lecco Varese?
Buona. Il carcere di Como ha il problema dei tetti, che stiamo rifacendo; ci sono 250 detenuti. Varese è un problema, l’istituto è tecnicamente dimesso, ma viene ancora usato. Ci sono solo un centinaio di detenuti, il che permette di lavorare bene. Sondrio non fa testo, nel senso che va bene, ma non è un reale modello, perché molto piccolo, con 30 persone, a conduzione quasi familiare. Lecco è casa circondariale, ci sono cinquanta persone, abbiamo un buon educatore e lavoriamo molto con il territorio, il volontariato, le istituzioni. Se avessimo altrove l’impegno che c’è a Lecco, la situazione carceraria migliorerebbe.
Come vive la sua famiglia il suo lavoro?
Lo vive... attraverso me, nel bene e nel male.