Lascio; non rimango!
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Eleonora Bertuzzi | 13-11-2006 |
Era un periodo grigio della mia adolescenza, ero veramente stanca, delusa da quello che avevo e insoddisfatta. Le amiche mi stavano strette… non mi ci trovavo, mi sentivo in gabbia a frequentarle. Da ragazzi si vuole spaccare il mondo, si ha dentro un’energia incredibile e gran parte la si esterna con gli amici. “Se non le facciamo adesso, quando?” ero solita ripetere loro, quando ci si trovava per decidere cosa fare nel weekend. “Vediamo” era la risposta classica. Non la sopporto neanche adesso, se mi si risponde “vediamo” mi innervosisco! Non è che proponessi sfide al livello dell’incredibile, anche se le mie amiche reagivano come se lo fossero state; da parte mia, cercavo solo di trascinarle a fare qualcosa di diverso dai soliti giretti in centro o dalle uscite nel locale più alla moda.
Ennesima urlata con mia madre. Era una domenica mezzogiorno. Sono sempre stata abituata a parlare coni miei genitori, ho sempre parlato con loro dei miei disagi e delle mie felicità, e anche quel giorno mia madre capì al volo che qualcosa mi tormentava. Mio padre è più calmo, è raro litigarci, mentre io e mia madre ci scaldiamo subito, 5 minuti di fuoco poi la quiete dopo la tempesta.
“Ma piantale lì dove sono, cambia giro, vai in Croce Rossa, prova!”. Vai in Croce Rossa, un invito (ordine) su cui ancora oggi ci scherziamo, ma sta di fatto che, in quel momento, quasi per sfida, decisi che mi sarei iscritta al primo corso possibile di Croce Rossa, forse anche per dimostrarle che non era quello il modo per risolvere la mia insoddisfazione e rifarsi degli amici.
“Purtroppo” le mamme hanno sempre ragione. Corso, tirocinio ed eccomi dentro. Una notte a settimana, dalle 20:20 alle 6:30, uscite di urgenza 118 e servizi secondari per l’ospedale. Eh sì, non aveva torto, nuovo giro di amici, altri obiettivi, e finalmente anche io sono utile al mondo!
Andava tutto bene, quando un sabato mattina, durante un turno lungo, dalle 20:20 del venerdì alle 13:30 del sabato, mi tocca un servizio, un giallo medico, con un autista che non conoscevo. Occhiali da sole, indossati dall’uscita dalla sede fin dentro l’appartamento del paziente, mantenuti per tutto il servizio. Ma va bè, che ci vuoi fare, ognuno è fatto a modo suo.
“Prendi la sedia”, un presidio per trasportare cardiopatici o pazienti con difficoltà respiratorie, vado, la prendo, la sistemo, non so cosa avessi fatto di sbagliato, avevo lavorato come sempre ho fatto con la mia squadra, con il mio caposervizio: “Se questa è la tua preparazione, forse è meglio che tu te ne vada, non so cosa ci stai a fare qui!” L’unica accortezza che aveva avuto è stata quella di non dirlo davanti al paziente, l’ha fatto in Pronto Soccorso, ma lo stesso avrei voluto scavarmi una buca e mettermici dentro. Mi sono venuti gli occhi lucidi, “no, non fargli veder che piangi”. Mi è crollato tutto, volevo mollare la turnazione, “ma perché, adesso che mi ci trovavo bene?!”
Torno a casa, era il compleanno di mio fratello, non faccio in tempo a oltrepassare il cancello, sbuca mia madre dal portico “allora com’è andata sarai stravolta, dai dormi un po’ che ti sveglio per la torta” e io scoppio in lacrime, raccontandole l’accaduto e accusandola, come se fosse stata colpa sua la batosta che m’era appena capitata. Eh si, ci sono entrata perché tu mi ha spinto, quindi ritieniti responsabile!
Poi, dopo i repentini propositi di dimissioni, ho interpretato l’adulto che stava piano piano costituendosi in me, esame di coscienza sul servizio, ho chiesto al mio caposquadra una valutazione, gli ho raccontato l’accaduto e ho avuto la conferma che andavo bene, ero brava e di non dar peso alle parole di quello là.
Un sogno quasi frantumato dalla voglia di spaccare il mondo tipica dell’adolescenza, quando tutto o è bianco o è nero, quando non ci si ferma a ragionare ma si agisce d’impulso, sull’onda dell’emozione del momento.
Un sogno recuperato e coltivato, ora continua a crescere, io continuo a crescere grazie a questo sogno.