Ibrido sì, ma in quale direzione?

Antonio Tango

05-11-2008  

Ciao sono Antonio, però sono stato anche molte altre persone, sono stato quello che gli altri volevano che io fossi. La mia storia incomincia all'età di otto anni. Nell'infanzia, quando la sensibilità di un bambino è molto delicata, anche un episodio di bullismo può essere traumatico. Questo è quello che mi è successo.

lo venivo preso in giro e deriso sia per il mio cognome "Tango" sia per il fatto che non reagivo mai agli insulti. Ero considerato, o meglio, un po' mi sentivo "lo scemo del villaggio". Questo fino al giorno in cui ho reagito. Da quel momento ho notato che gli altri avevano paura e timore di me. Hanno cominciato a rispettarmi e a considerarmi. Forte della gioia che provavo nel sentirmi qualcuno e non più lo scemo del villaggio, incominciai a percorrere una strada fatta di violenza e prepotenza allo stato animale.

Più picchiavo e più la mia fama aumentava, e anche quando mi sparavano o mi accoltellavano io, invece di soffrire, ero contento perché diventavo sempre più famoso. Però è anche vero che la gioia che provavo durava pochissimo, un attimo. Subito dopo mi prendeva una forte sensazione di malessere. lo non comprendevo ancora cosa era, ma quando facevo valere la mia prepotenza, ogni volta che facevo dei danni (come quando ho bruciato la macchina al preside per farmi promuovere o quando picchiavo qualcuno solo perché avevo mal di denti), il senso di disagio aumentava e non riuscivo a capire il perché.

Un giorno, all'età di ventotto anni, durante una rapina vengo ferito gravemente dietro la schiena. Il proiettile mi aveva scheggiato la colonna vertebrale, bucato l'intestino, per fermarsi vicino al cuore. Sentivo da una parte di avere raggiunto un grande traguardo perché, in conseguenza di questo episodio, la mia fama era ancora aumentata e anche in galera venivo rispettato, ma dall'altra parte aumentavano malessere e inquietudine. Cominciavo a rendermi conto che ero diventato, a mia volta, quello che avevo odiato con tutto me stesso. Infatti, anch'io ero diventato un prepotente e un bullo come quelli che mi avevano fatto molto soffrire quand'ero bambino.

Ho passato degli anni in continua lotta con me stesso perché, quand'ero in compagnia dei miei amici, il mio lato di piccolo boss si esaltava, ma quand'ero solo il senso di malessere aumentava.

Poi conobbi Giorgio, il professore di diritto, proprio in un periodo in cui il mio senso di colpa e la mia sete di sapere mi avevano fatto intraprendere il percorso scolastico. Giorgio mi disse che io avevo molte capacità e che non le sfruttavo. Quello che realmente mi aveva colpito non erano state tanto le parole di incoraggiamento, quanto il fatto che lui mi vedeva e mi accettava per quello che ero io, Antonio, e non perché facevo credere di essere un duro.

Ho cominciato a capire in quel momento che Antonio Tango non aveva bisogno di sfoggiare la violenza e la prepotenza per farsi rispettare e considerare. Credo che un po’ di strada l’ho fatta, anche perché, a differenza di come ero allora, oggi sono contento di essere qualcosa di più di un animale che sa imporsi sugli altri. Ma la presunzione di credermi padrone di me stesso è ancora presente, come pure la presunzione di avere la forza e la lucidità per prendere le mie decisioni.

Al primo ostacolo che mi si è messo davanti, infatti, sono tornato a cercare la forza fuori di me, anche se stavolta non nella prepotenza. Stavolta mi sono appoggiato alla dolce ed esaltante euforia della cocaina. All'inizio è bello, ti senti sicuro, indistruttibile e appagato, ma è solo un istante di pura illusione. La verità è che man mano che la usavo non ero io a usare lei ma lei a usare me. Come un parassita mi corrodeva dentro, mi faceva stare sempre più male perché intanto cresceva la disistima verso me stesso.

Dicevo a me stesso di potere smettere quando volevo, criticavo chi si faceva comandare dalla cocaina e lo chiamavo "tossico", mi arrabbiavo come una bestia quando mi dicevano che ero come quelli che criticavo, aggredivo e davo la colpa a tutti tranne che alla dolce cocaina.

Adesso, dopo aver passato sedici anni della mia vita in carcere, mi trovo ancora fra queste quattro mura. Penso che non avrei dovuto correre ma che dovevo camminare. Oggi so di essere ancora un ibrido, un mix di desideri e di maschere, ma mi auguro di tutto cuore di essere sulla strada giusta per diventare me stesso. Lo voglio per me, ma soprattutto per mio figlio, che un domani non abbia da vergognarsi di suo padre ma che possa crescere sicuro di sé e della sua forza più vera, quella che gli leggo in faccia quando ride e chiede perché.