Alessandro Crisafulli |
03-10-2012 |
Ciao papà. Come suona strano alle mie orecchie il suono di questa parola, “papà”! In un certo senso è come se non mi appartenesse, come se fossi nato privo della possibilità di nutrirmi della relazione padre-figlio e della fiducia che dà pronunciare questa parola.
Quando mi hai concesso di dialogare con te, avevo circa 18 anni e avevo già commesso molte cose di cui vergognarmi, ma ti chiamavo “Minotto”, mai “papà”. Oggi, poiché ho sotterrato la mia “ascia di guerra”, il sole brilla alto sul mio cammino, e sento dentro la forza per farti partecipe del mio viaggio esistenziale.
Quando ero piccolo mi chiedevo spesso quali fossero le cause del tuo disinteresse verso di me, a volte sentivo addirittura che mi disprezzavi, per te ero solo un fastidio. Non trovando risposte, mi sono convinto che fossi io ad essere “sbagliato”, una sorta di prodotto uscito male dalla fabbrica. Mi dicevo: “non ti ho chiesto io di venire al mondo”. Poi ho scoperto che, in effetti tu, da questo punto di vista, eri coerente. Tu non volevi un altro figlio, due per te erano già troppi. Il fatto è che la mamma desiderava una figlia per alleviare la sua frustrazione, e invece il destino ha voluto che nascessi maschio… e così non andavo troppo bene neanche per lei.
La mia infanzia, te lo dico perché non te ne sei accorto, è stata un vero inferno. Non so cosa mi ha consentito di sopravvivere, di sopportare gli interminabili silenzi che assordavano la mia mente. Credo che nella casa che mi ha visto bambino rimbombi ancora l’eco delle mie paure. Il mio amico/nemico era il tempo: amico perché rigoroso e affidabile, nemico perché passava troppo lentamente.
L’unico segno di vita concreto l’ho dato a 7 anni, quando per richiamare la tua attenzione ho rubato i soldi alla nonna che mi faceva guardare la televisione in casa sua. Ma la sola cosa che ho ottenuto sono state le botte della mamma. Tu non lo hai nemmeno saputo, e poi a pensarci bene, anche se lo avessi saputo avresti detto: “quel coglione è proprio scemo, si è fatto beccare!”.
Da questo episodio fino ai 12 anni mi sono chiuso nel mutismo delle mie fantasticherie, luogo in cui trovavo un po’ di sollievo. Nel frattempo, però, la mia convinzione di non avere un futuro si radicava sempre più profondamente, invadendomi con un pressante desiderio: abbandonare la mia infelice esistenza. Non ho mai cercato volontariamente la morte, ma ritengo che l’uso così precoce della droga fosse il mezzo scelto dal mio inconscio per togliermi di torno. Infatti, quando a 12 anni sono andato via da casa ho iniziato subito a usare la droga e a commettere un’infinità di reati.
Poiché non mi importava di vivere, sprezzavo il pericolo, questo mi faceva vedere agli occhi degli altri come un temerario. Più gli anni passavano, più diventavo una larva umana. Finché il 27 agosto 1981 sembrava che fossi riuscito a raggiungere il mio obiettivo: morire. Ricordo perfettamente quella mattina in cui andai a comprare la dose mortale di eroina che mi iniettai nel bagno di casa. Ma non era giunta la mia ora. Rammento che aprii gli occhi e vidi intorno a me delle facce sconosciute, erano i medici dell’ospedale Niguarda. Per ironia della sorte, eri stato proprio tu a trovarmi nel pieno dell’overdose e a chiamare l’ambulanza che mi salvò appena in tempo.
Quell’evento cambiò completamente il mio modo di essere, perché mi persuasi che non era me che dovevo punire, ma la vita che era stata così ingiusta nei miei confronti. Le prime cose che feci furono tagliarmi i capelli, che mi arrivavano a metà schiena, e togliermi gli orecchini. Ero pronto per iniziare l’ascesa che mi portò ad essere un vero criminale.
Questo cambiamento ti rese felice, finalmente eri orgoglioso di me. Il nostro rapporto cresceva in modo direttamente proporzionale ai miei successi criminali. Ma la mia sofferenza non si placò, anzi si sommò a quella che provocavo agli altri. Così, per non pensarci, mi rifugiai nuovamente nell’illusione provocata dalla droga, la cocaina, l’unico stupefacente che non avevo ancora usato.
Tutto ciò durò fino al 19 settembre 1994, giorno nel quale finalmente fui “fermato”. In carcere ho trovato le guide che mi sono mancate. Grazie a loro, e naturalmente alla mia determinazione nel voler diventare un uomo, ho trovato il luogo dove erano sepolti i “nodi del mio cuore” e ho cominciato lentamente a scioglierli.
E’ incredibile constatare come tutto appaia diverso quando si è tenuti per mano. Quando ci si sente protetti, si trova la forza per scavare in profondità, in cerca della guarigione che non esige vendetta.
Avrei voluto parlartene a voce, ma quindici anni fa, quando te ne sei andato, non ero ancora pronto. Grazie alla consapevolezza acquisita, ho riconsiderato quel poco che so della tua vita prematrimoniale. Anche tu hai avuto un’infanzia difficile, inoltre a soli 19 anni ti sei trovato catapultato in guerra e sei stato prigioniero per quattro anni degli Inglesi in Africa. Con questo pesante fardello, era molto improbabile che potessi assolvere il difficile compito che spetta a un genitore.
Adesso che tutto il rancore si è dissolto, sento l’urgenza di dirti che ti voglio bene. Addio papà.