Rapinatori e paracadutisti |
Claudio Nocera | 29-07-2003 |
Credo che tutti i rapinatori amino il rischio, il botto senza precedenti. Aspirano, come al cinema, al “colpo gobbo”, sognano di sistemarsi una volta per tutte, anche se, in fondo, i soldi non sono l’unico motivo di interesse. Certo, i soldi fanno comodo e li vogliono, ma delle rapine credo che apprezzino soprattutto il rischio; quello di essere soli, armi in pugno, contro tutto e tutti, giocandosi, in un solo istante, passato, presente e avvenire e forse anche la pelle.
Il rischio è come una droga, se piace non se ne può più fare a meno; è una sensazione unica, a volte affascinante. Forse, prova la stessa sensazione il paracadutista che si butta da un aereo o il motociclista che corre a tutta velocità. Entrambi sanno perfettamente che possono rompersi l’osso del collo, ma lo fanno ugualmente, forse proprio per questo. La rapina, per di più, è proibita, è un reato gravissimo. E’ sicuramente più rischiosa di un salto con il paracadute; è la trasgressione per eccellenza.
In realtà il rapinatore si costruisce un’identità di comodo, fabbrica un personaggio freddo, aggressivo, che riconosce il valore della vita solo attraverso le rapine, mete fantasticate all’interno di uno stile di vita respirato e fatto proprio con gli anni.
Anche all’interno dello stesso contesto di chi ha deciso di vivere nell’illegalità ci sono differenze: il rapinatore, dal suo punto di vista, pretende di avere un rapporto leale col reato perché pensa di mettersi in gioco in prima persona e in maniera frontale. E’ difficile da spiegare a chi non ha provato.
Da quando trattiamo quest’argomento, al gruppo sono stati letti alcuni scritti di cittadini vittime di questo reato. Nonostante le persone e le situazioni fossero diverse, tutti abbiamo notato come i sentimenti, l’emozioni e le cicatrici fossero pressoché identiche.
Ci si è aperto un nuovo scenario, perché fino a quel momento il confronto con queste persone terminava con l’azione stessa, o in alcuni casi, si concludeva successivamente nei vari incidenti probatori, i famosi “confronti all’americana”, dove vittime e rapinatori si ritrovano, divisi da un vetro, per il riconoscimento. Quel vetro che separa è anche l’emblema del distacco: il bene da una parte e il male dall’altra.
Adesso la cosa è un po’ diversa, non c’è più il vetro e siamo messi di fronte ai loro sentimenti, al loro dolore e alla loro voce che rivendica rispetto. Tutto, ora, è più difficile, non si può più contare su quel personaggio fabbricato comodamente e sarebbe anche un atteggiamento vile, in questo contesto, affermare che non si poteva immaginare la violenza e l’umiliazione che tali azioni procuravano a chiunque avesse avuto la colpa di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Ci sono voluti anni di carcere, sofferenze e riflessioni per iniziare a capire che, più che un reato contro il patrimonio, la rapina è un’offesa alla dignità e ai sentimenti delle persone che vi restano coinvolte, anche solo come spettatori.