Novembre 2002

Desirèe

18-06-2003  

Una classica serata invernale, faceva freddo ed ero in una farmacia di paese, con mia madre. Mentre compravo quello che mi serviva ridevo con gli altri clienti, amici, scherzando sul ritorno, una strada buia, con pochi lampioni.
Chiacchieravamo sul cattivo tempo e sulla possibilità di fare “brutti incontri” sulla via del ritorno, scura, nella zona industriale… avrei voluto riaccompagnarli in automobile, ma la coppia voleva fare una passeggiata, un po’ come gli “innamorati di Peynet” immaginando che i pochi lampioni fossero la luce della luna.

A quel punto decidemmo di andarcene, io e mia madre, e ci dirigemmo come al solito verso la porta vetrata dell’uscita.

La mamma è davanti a me ma improvvisamente, mentre cammina, si ferma, indietreggia e io, stupita del suo atteggiamento insolito, la spingo vigorosamente ma lei mi ripete di andare indietro e io non capisco, le chiedo perché…”Desy è una rapina, vai indietro”…vedo un braccio che la spinge ancora contro di me e una mano che tiene una pistola.

Spostata mia madre, il rapinatore carica l’arma, la punta al soffitto e dice solo “Fermi e zitti”. Lo guardo, vedo un collant sopra a un volto e mi rendo conto che la situazione comincia a prendere forma. Io sono smarrita, intontita, vengo spinta verso il bancone dalla mamma, che mi tiene abbassata per proteggermi. Lui si muove verso il retro, si ferma alla cassa… io lo guardo, non riesco a staccare gli occhi dai suoi movimenti, sono impotente, ridotta all’immobilità con la paura, la paura che qualcuno possa muoversi o parlare e fargli perdere il controllo, mentre la pistola è sempre tesa nella sua mano. La farmacista continua a dirgli di prendere i soldi e di andarsene, apre la cassa e ripete, ripete le stesse parole ancora, continuamente.

Io mi alzo, d’istinto, voglio vedere cosa sta facendo, dove si sta dirigendo, se si sta avvicinando a noi. Temo che voglia qualcosa senza sapere cosa e nella confusione, nella paura più cieca, senza staccargli gli occhi di dosso, nascondo la borsa tra le gambe; i movimenti che avrei voluto fare per proteggere le mie cose, mia madre e me stessa sono paralizzati perché ho paura che possano essere intesi da lui come un tentativo mio di offesa.

Temevo una sua reazione ed ero così costretta a restare immobile, costretta alla piena obbedienza, costretta a sentire l’impotenza che solo una pistola vera o presunta può farti sentire. Avrei voluto vederlo chiaramente in viso, avrei voluto vederlo senza quel brutto collant sulla faccia… perché era un ragazzo giovane, intravedevo di lui gli occhi chiari e per un attimo la mia paura era diventata il dolore di non sapere nemmeno il perché dovessi patirlo.

Credo che in quel momento fosse spaventato, era un uomo solo che doveva tenere sotto controllo 9 persone attorno a lui, in quella farmacia… mi domandavo quanta adrenalina e non so che altro potesse spingerlo a fare quello che stava facendo. Finalmente prende i soldi e se ne va, non prima di intimarci di restare sempre fermi e zitti. Nessuno si muove, per nessuna ragione.

Io sono in piedi, al bancone, mia madre si siede per terra impietrita, un’altra donna cade in ginocchio. Marito e moglie, gli innamorati di Peynet, scoppiano in lacrime, insieme, pensando al loro bambino a casa, pensando che se la rapina si fosse trasformata in tragedia magari non l’avrebbero più rivisto. Le parole di rassicurazione della farmacista non sembravano servire a dissipare la confusione, lo smarrimento, il dolore, la sensazione di stordimento.

Mi sono resa conto, mentre cercavo di ricostruire l’accaduto, che avevo perso il senso del tempo. Non ricordavo la quantità di minuti, che non potevano essere più di due o tre, ma dentro di me era stato un tempo senza tempo, dilatato a tal punto da annebbiare la mia cognizione della durata dell’accaduto.

Reagisco con sarcasmo alle domande dei carabinieri, scherzo con mia madre tornando a casa, forse per allontanare la paura, forse per non spaventarci ancora di più fra di noi e cancellare in fretta il ricordo, esorcizzare il terrore di quei minuti in cui mi sono sentita un ostaggio in balia di quello che avveniva attorno a me.

Pensando, nei giorni successivi, sentivo la presenza costante e onnivora di quella paura che non decresceva ma saliva; temevo ora tutto quello che non avevo avuto il tempo di temere durante la rapina: che mi conoscesse, che potesse sapere chi fossi, dove abitavo, che potesse aver pensato che io lo avessi visto tanto bene da riconoscerlo e denunciarlo.

Continuavo ad avere terrore di chi per pochi minuti si era impossessato della mia volontà, della mia coscienza, per un istante, ma che era bastato per sentirmi derubata del mio diritto alla libertà, la libertà di poter camminare guardando i volti, gli alberi, le vetrine.

Non ebbi la forza per mesi di rientrare in quella farmacia, aspettavo fuori, in macchina, col motore acceso, aspettavo mia madre pensando che se fossi stata lì fuori nessuno avrebbe “serenamente” pensato di entrare e minacciare ancora i miei affetti, la mia sicurezza, la mia libertà.

A distanza quasi di un anno, ho ancora il sapore della paura dentro di me quando entro a far compere in qualche negozio e non riesco a restare con le spalle voltate alla porta perché non voglio rivivere quelle sensazioni, che nella mia memoria, come braci, rimangono sommesse e vive.