Gli eroi omerici e il ballerino |
Paolo Sorge | 11-04-2012 |
Pensare alla morte come a qualcosa che ci appartiene è difficile. Ognuno di noi cerca di allontanarne il pensiero e ce ne ricordiamo soltanto quando essa raggiunge qualcuno a noi vicino. In altre epoche, però, troviamo testimonianze di un rapporto dell’uomo con la morte molto diverso, tanto da portare a uno stile di vita molto distante dal nostro.
Nell’Iliade si narra la storia della città di Troia e della guerra intorno alle sue mura, durata complessivamente 10 anni. Omero ci racconta soprattutto gli episodi degli ultimi 51 giorni. Descrivendo le gesta dei Greci e dei Troiani, egli ne esalta il codice eroico, che era raffigurato dallo stemma della stella a tre punte e al quale i suoi eroi obbedivano rigorosamente. Le tre punte indicavano l’una il valore, le altre l’onore e la gloria.
A misurare valore, gloria e onore degli eroi era anche il modo in cui loro si rapportavano alla morte. Questi eroi amavano fortemente la vita ma, nel loro modo di vedere le cose, il bene della vita doveva cedere il passo all’onore. Dunque, è in rapporto alla morte che ognuno di questi valori si afferma. Affrontandola con onore e con valore, la morte diventa gloriosa, bella, tanto da rendere eterna la fama di questi eroi. L’eroe del poeta omerico, dunque, non ha paura, ma ricerca la “bella morte”, in quanto valore di fronte al quale passa in secondo piano la vita stessa. Loro erano spaventati soltanto dalla morte senza sepoltura, perché senza tomba sarebbe stato difficile mantenere la memoria dell’eroe.
Sul terminare di questa guerra, viene raccontato il duello fra Achille ed Ettore. Achille, dopo avere ucciso l’avversario, ne lega il corpo alla propria biga e lo trascina per tutto il perimetro intorno alle mura della città. Ma quando il vecchio Priamo chiede il corpo del figlio, Achille lo restituisce alla sua gente, affinché Ettore possa ricevere il rito della morte e guadagnare così la gloria eterna che merita. Egli ha infatti lottato con coraggio e con onore ed è quindi meritevole di una “bella morte”.
Mi chiedo perché noi uomini di oggi, al contrario degli eroi di Omero, non riusciamo ad accettare il limite che la vita ci riserva da sempre. Se guardiamo la condotta del ballerino, vediamo che lui rimanda il più possibile la “morte”, trascurando il fatto che in questo modo non potrà mai ottenere la gloria. Egli rimanda il più possibile che il cigno muoia, come se non avesse alcun valore il modo in cui il ballerino uscirà di scena, come se il ballerino non avesse a cuore quell’identità che ha permesso a Ettore di andare incontro a morte sicura o come se temesse di non poterla mai raggiungere.
Schiacciato da questa paura, il ballerino rimane sulla scena fin quando può, ignorando i segnali del regista e del pubblico che lo invitano ad avere una “bella morte”. Tanto è ancorato a questa sua fame di attenzione che egli trascura quel codice sociale che, passo dopo passo, risultato dopo risultato, ci fa crescere e ci rende riconoscibili nel nostro ruolo.
Credo che la differenza tra gli eroi di Omero e il ballerino stia proprio nel riferimento agli ideali e nel rispetto dei codici sociali che, appartenenti a un’epoca lontana o al mondo di oggi, sono utili per costruire la nostra identità e per vederla riconosciuta nella società.
Ma formare la propria identità e ottenerne il riconoscimento non è cosa facile. Molti di noi hanno una fame pressante e insaziabile di riconoscimento e credo che questa “fame” sia dovuta anche al fatto che tante volte si cresce senza una figura di riferimento capace di aiutarci a mettere a fuoco i nostri progetti e di guidarci nella complessa realtà del nostro tempo. E così, per il ballerino la morte del cigno diventa la sua stessa morte invece che una tappa della sua evoluzione