Alessandra

Giulia Marchioro

 

01-07-2012

Ho imparato ad apprezzare la fatica nel cammino per arrivare in cima alla montagna grazie a mio padre. Lui mi ha insegnato ad ascoltare altro oltre ai muscoli delle gambe che mi chiedevano di fermarmi, di tornare indietro, di sbuffare. Mi ha allenata ad apprezzare il canto degli uccelli, le macchie di ombra formate dai raggi che filtravano nel bosco, l’odore della resina degli alberi, le diverse forme delle foglie, la forma strana delle nuvole.

Non erano solo i sassi delle montagne, né il muschio né i fiori ad avere un buon odore, anche mio padre sapeva di buono. Portava lo zaino sulle spalle e ogni volta la maglia si bagnava di sudore, e lui sapeva di buono, di fatica felice. Arrivati in cima mi sorrideva, mangiavamo il panino col salame e ci godevamo il panorama respirando a pieni polmoni. Molte volte capitava che mi dicesse una frase che da sempre ricordo: “guarda che bello, guarda che piccolino quel paese laggiù, pensa a quanto siamo piccini noi di fronte a tutto questo, che meraviglia!”.

Questo è uno dei pensieri che in questo periodo mi hanno permesso di stare vicina ad Alessandra, mi hanno aiutata ogni giorno a stare di fianco alla paura della morte, aspettandola senza fuggire via. La prima volta che ti ho incontrata scendevi le scale dello stadio di San Siro con l’aria di una ragazza raggiante, felice e leggera. Dietro di te il mio fratellone che ti seguiva e nel contempo mi cercava con lo sguardo tra le panchine per indicarmi il tuo volto per dirmi: “Ecco sorella, è lei, sarà lei nella mia vita che vorrò al mio fianco”.

Il giorno dopo Claudio girava per la casa emozionato, giocherellava con un pacchetto di Chesterfield con scritto a penna e velocemente il tuo indirizzo. Quel pacchetto è rimasto per cinque anni nel primo cassetto della sua scrivania, nella nostra cameretta, mentre il vostro legame cresceva permettendovi di progettare il futuro insieme. Per un lungo periodo di tempo ti ho conosciuta con gli occhi, le parole e le riflessioni di Claudio. Quando ha deciso di chiederti di sposarlo io ho cucito il peluches a forma di cuore nascondendo l’anello al suo interno, per rendere la sorpresa assicurata.

L’anno scorso abbiamo condiviso i preparativi per il vostro matrimonio tra i sorrisi e le ansie per quel bellissimo giorno felice.

A quattro mesi da quel giorno la diagnosi. A undici mesi da quel giorno la tua morte. Siamo piccolini di fronte ai mille volti della natura, è vero.

Più volte, da quando il cancro è entrato nei nostri discorsi e nelle nostre vite, ho avuto l’impulso di scappare, di non parlarne, di allontanare il pensiero, di far governare il silenzio.

Avevo paura di ciò che sarebbe potuto succedere, sentivo quanto fosse ingiusto ciò che ci stava succedendo e quindi mi volevo allontanare, non volevo credere fosse vero.

Con fatica e tanto dolore ho però pensato che forse guardare ciò che ci stava succedendo da vicino guardandoti negli occhi, accarezzandoti le mani, ascoltando i tuoi pensieri, mandandoti un messaggio, rendendomi disponibile a leggere un libro, o semplicemente stando una vicina all’altra in silenzio, guardandoci, piangendo, sorridendo, sarebbe stato un modo per rendere meno faticoso questo cammino, che comunque ormai era parte di questa vita.

Così una delle tante volte che vi sono venuta a trovare a casa ti ho detto che non sarei scappata e che ci sarei stata. Tu mi hai abbracciata così forte, ringraziandomi, che ho sentito che il nostro legame sarebbe stato più forte e più importante della nostra impotenza e della nostra piccolezza.

Tra i giorni di convalescenza a casa, le cure devastanti e le giornate interminabili in ospedale ci siamo date la possibilità di rendere vivo anche l’ultimo tuo periodo, senza coprirlo con la rabbia o con la disperazione. In questo triste pezzo di strada non sono mancati i canti degli uccellini, i raggi del sole, la freschezza dell’acqua, il gusto della frutta fresca. Abbiamo riso di gusto e riassaporato vecchi ricordi, abbiamo parlato del futuro con le lacrime agli occhi, sapendo che non ci saresti stata.

Non era quello che importava. Ci importava solo di stare insieme, fino alla fine.

Adesso che non ci sei più sento forte comunque la tua presenza. Sento che adesso come prima mi sproni nell’andare avanti alla ricerca dei miei sogni, sento che il mio studio è anche il tuo, sento che siamo ancora legate e sono certa che questo legame sia vivo grazie al nostro coraggio. Non siamo scappate e abbiamo avuto paura insieme. È stato un po’ come aver più voglia di gioire, nonostante tutto.

Questo pezzo di strada è stato per noi motivo di ricchezza più che di rassegnazione, ha ridato splendore tanto alla tua vita passata quanto alla mia vita presente e futura.

Ogni tanto mi capita di soffermarmi ad ascoltare i muscoli doloranti, la fatica nell’accettare l’ingiustizia di non averti tra noi. So che è solo un momento, perché per tenerti viva ho scelto di vivere il doppio, di costruirmi e di crescere con ancor più determinazione di prima.