Tentare un percorso |
Enzo Martino | 18-07-2003 |
La persona depressa e isolata dal resto del carcere perché malata o ritenuta tale deve responsabilizzarsi. L’ozio, il parassitismo, portano le persone ad atti d’autolesionismo. Per aiutare questi “malati” ci vogliono altre persone con lo stesso status, in pratica, detenuti.
Il carcere tende ad isolare, figuriamoci chi sta male! Una soluzione possibile sarebbe quella di stare vicino a queste persone e parlare con loro, facendo un percorso insieme. Così facendo, ci si può ritrovare nell’obiettivo finale: migliorare lo stato mentale che in quel momento è precario.
Un altro possibile aiuto è cercare di riempire quel senso di vuoto e la mancanza di comunicazione con il resto del carcere: assistenti volontari, educatori e responsabili in genere. Ottenere la fiducia dei detenuti è difficile anche con chi non ha particolari problemi psichici, a maggior ragione con chi sta male! Certamente occorre molto impegno per far sì che si creino delle condizioni di reciproca stima e fiducia.
Non bisogna dimenticare che chi sta male e magari ha degli atteggiamenti da asociale o da strafottente è un uomo che ha avuto un passato e che nel presente attraversa un particolare stato di malessere psichico. Questa persona, in ogni caso, sarà in futuro un cittadino libero di scegliere cosa fare di se stesso e, come tale, dovrà essere restituito alla sua famiglia e alla società; una volta uscita dal carcere, la famiglia e la società beneficeranno delle sue capacità o patiranno le conseguenze della sua immaturità.
Non penso che lo stato di un uomo malato (ovviamente con piccoli problemi mentali) sia irreversibile e pertanto credo che provare ad aiutarlo sia una scommessa a cui non dobbiamo sottrarci. In tanti anni di carcere, ho avuto la possibilità (purtroppo), di notare che tante persone che vi entrano, non sopportano l’impatto ambientale, non sopportano la pressione psicologica e, non conoscendo la struttura e le persone che ci vivono, credono di non potercela fare a vivere in queste condizioni.
È in quel momento che bisogna intervenire per tranquillizzare le persone; e chi meglio lo può fare se non un altro detenuto? Una persona, quando entra in carcere, si sente rifiutato da tutti, non ha più contatti con le persone a lui care, perciò si sente un fallito, un uomo che non ha più relazioni con persone amiche, non si sente più un uomo che vale, crede che la miglior soluzione sia farla finita con tutti e con se stesso.
Noi dobbiamo tentare di creare un’atmosfera dentro la quale il detenuto della cella a rischio non si senta abbandonato, si senta il meno possibile un uomo inutile e si ricordi, invece, che quello che fa oggi conta per il suo futuro.