Se questo è un uomo |
Maria Cristina Giussani | 09-12-2005 |
Per quanto riguarda l’appropriazione indebita collegata alla domanda, acuta, di Enzo, il quesito era:
dopo aver letto il libro di Primo Levi “Se questo è un uomo”….
<<come è possibile che alcuni ebrei, sopravvissuti ai lager nazisti si siano suicidati successivamente a questa terribile esperienza e non abbiano, quindi, più retto al peso della vita e invece i grandi gerarchi nazisti, indebitamente appropriatesi della vita altrui, non abbiano mai compiuto gesti così drammatici e, anzi, si siano sempre difesi, poi, nei grandi processi, (quando ci sono stati), a loro carico?>>.
Bella domanda, Enzo… non è facile risponderti e soddisfare la mia curiosità di saperlo, suscitata appunto dalla tua domanda.
Forse i gerarchi nazisti, appropriandosi indebitamente delle altrui vite, sono usciti rafforzati da questa esperienza e da questa carneficina, perché, in un certo qual modo, si sono “cibati” delle loro vittime, della loro sofferenza, dell’umanità che, in loro stessi, mancava.
La morte, la sofferenza altrui, mai nascosta, al contrario, terribilmente esibita, saziava la loro bramosia di potere e di conferma di potere tutto, su altri corpi e altre anime. Leggere negli occhi degli altri il terrore per la sola propria presenza può aver contribuito ad esaltare un’anima vuota, ad identificarsi nel ruolo di persecutore.
Mentre gli altri, all’opposto, quando non sono stati privati della vita, sono stati comunque strappati alla loro individualità e unicità, omologati nei lager, diventati “animali strani, gambe che per anni fan gli stessi passi, esseri diversi, scarsamente umani, cose fra le cose, l’erba, i mitra, i sassi”, citando F. Guccini, e poi, per coloro che si sono salvati, la vita non ha più potuto riprendere nel punto in cui era stata lasciata e si sono sentiti svuotati, ormai incapaci di condurre una vita normale, (ammesso che si possa tornare alla normalità dopo un’esperienza del genere) e libera.
Coloro che non sono riusciti a tornare ad essere se stessi, segnati e marchiati da questa tragica esperienza, nel suicidio hanno forse visto l’unica alternativa al dolore, una specie di catarsi, per liberarsi per sempre da quella sorta di sporcizia che ci si sente addosso quando qualcuno ha abusato, in senso lato, di noi, nel nome di un fanatica concezione del mondo o di niente.
“…Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d’inverno.”
(P. Levi)