Luca Raineri | 31-05-2004 |
Non di rado qualcuno mi domanda che cosa ci vada a fare io in carcere, e la domanda non manca mai di spiazzarmi: "Già, cosa ci vado a fare in carcere? A parte l’irriflessivo entusiasmo iniziale, se ci penso seriamente, che ci faccio qua dentro?"
Di solito la mia risposta è: parlo.
Parli?!? Oh beh, complimenti, immagino che sforzo... e a cosa serve?
Io credo che serva a moltissime cose, serve nel duplice significato di “essere utile in vista di uno scopo” e di “mettersi al servizio, farsi servo.”
Parlare in fondo significa creare dei legami, mettersi di fronte al tuo prossimo e prenderlo in considerazione, sforzandoti di vincere l’indifferenza che sovente governa i non-rapporti fra le persone, e la diffidenza impaurita che crea una cappa di omertoso silenzio intorno al carcere, per esorcizzarlo. Sia detto per inciso, scavalcare l’indifferenza con un detenuto è piuttosto facile dal momento che si tratta quasi sempre di persone ricche di vita, emozioni e dubbi da raccontare, gente che ha vissuto una vita o anche un istante solo decisamente fuori dall’ordinario, e per questo “stra-ordinaria” e degna di tutta l’attenzione e la partecipazione di questo mondo.
Creare dei legami è quanto di più indispensabile e urgente ci sia in carcere: una prigione in fondo è un posto fatto apposta per recidere legami, le sbarre sono lì per quello, per separare, per allontanare, per tagliare di netto i mille fili che tengono una persona legata alla società. Se penso quanto sia facile distruggere legami anche solo con una parola sbagliata, con una telefonata in un momento inopportuno, non oso immaginare quanto possano fare delle sbarre di una prigione. Ebbene, io credo di essere qui, in carcere, per cercare in qualche modo, fra paurose lacune di ingenuità e inesperienza, di riannodare questi fili. Certo, non posso mica andare dalla moglie di un detenuto a raccontarle del più e del meno e di come sta suo marito e trasmettere messaggi d’amore. Però posso e devo parlare ai miei amici di uomini insospettabilmente ricchi di sogni, debolezze e paure in tutto simili a quelle di chi –fuori- si sente diverso e senza macchia. Scagliare frecce da dentro il carcere, io che ho il privilegio di poter entrare e uscire, per bucare questa bolla d’aria stagnante e preconfezionata che lo circonda, distorcendo le immagini e avvelenando di diffidenza chi la respira. A questo servo.
A volte mi sento un po’ un giornalista inviato speciale in qualche paese esotico dove c’è una guerra sanguinosa, della quale i giornalisti allineati alle voci ufficiali non fanno che lamentare la barbarie della popolazione e contrapporla allo splendore della “nostra” civiltà democratica e ricca e libera e pacifica. Ma il direttore del mio giornale, che è uno che non è mai stato troppo convinto di vivere nel lato perfetto del mondo, mi ha mandato direttamente sul posto a vedere di persona e a far saltare gli steccati rassicuranti e falsificanti che contrappongono noi e loro, buoni e cattivi.
Non ho l’obbligo di assolvere nessuno, ma a guardar da vicino ci si rende conto che le cose sono un po’ più complicate di quel che sembrano, perché tali sono le persone, che difficilmente puoi comprimere in uno schema prefabbricato senza appiattirne irrimediabilmente la vera natura. L’importante, adesso, è che tutto quel che scopro e documento io non lo tenga per me, ma lo racconti in giro, lo testimoni, affinché le persone con cui ho la fortuna di entrare in contatto comincino a guardare il mondo con occhi un po’ diversi. I detenuti non hanno mezzo di far sentire la loro verità e loro storia, io che posso viaggiare per il mondo, io sì. Questo significa creare dei legami. A questo servo.