L'obiettivo delle forze alleate

Livia Nascimben

06-07-2004  

Ho sognato Massimo e Fabio.
L’intenzione non era di fare male, l’intenzione era difendersi dal male.
I coltelli che tenevano in tasca non volevano uccidere, ma in quell’attimo lo spazio per scegliere era troppo limitato per operare una scelta diversa.

Il massimo grado di libertà di scelta è presente proprio quando le conseguenze delle scelte appaiono poco compromettenti e significative; paradossalmente, la persona giunge alle premesse per fare del male e commettere reati, assai spesso, in conseguenza di una scelta che non comporta reato; poi produce il male e commette il reato quando la possibilità di scegliere di non commetterlo risulta, nella valutazione soggettiva o nella confusione che il soggetto vive, drasticamente ridotta. Per chi è consapevole di aver fatto del male, più del rammarico per averlo commesso, è proficuo ricostruire il percorso seguito (con il riconoscimento delle circostanze, delle motivazioni e dei sentimenti vissuti) fino al tunnel nel quale ci si è trovati al momento di commetterlo. Aparo

 

Ora la necessità è di tornare e ricostruire lo spazio per l’identificazione con l’altro, la pena e il perdono non bastano.

Ripenso a quando ancora potevo scegliere. Ero innocente, bambina, armata solo della curiosità di scoprire il mondo e i suoi abitanti. Me ne andavo in giro tenendo la mano a mamma e papà, la mia sopravvivenza dipendeva da loro.

 

 

Ero piccola ma avevo un potere: potevo fare arrabbiare i miei genitori con i miei capricci, farli allarmare con i miei malesseri, farli sorridere con le prodezze da bambina intelligente e vivace. Tutti mi dicevano che ero brava, ero orgogliosa quando sentivo i miei genitori parlare di me ad altri adulti: una bambina educata, rispettosa degli altri, ubbidiente, gentile, affettuosa, responsabile, quanto di meglio ci si potesse aspettare da un figlio.

E’ così che mi vogliono? Sono amata per la mia bontà? E se fossi una peste che ne sarebbe del loro bene?

Poche domande! Occorreva crescere e staccare la mano!
Il mondo volevo scoprirlo da sola, oramai ero abbastanza grande per camminare con le mie gambe e poi vedevo i miei coetanei già muovere i primi passi ed io non volevo essere da meno.

Ma crescendo, avvertivo il timore di non farcela; il mondo lo vedevo pieno di insidie, per ottenere qualcosa occorreva lavorare, non bastava più trovare uno sguardo perché i desideri si avverassero, e poi c’erano giudici ovunque, a scuola, nello sport, in chiesa. Non era una passeggiata crescere, occorreva tenere conto degli altri e io mi sentivo insicura e confusa.

Che fregatura, i patti non erano questi! Si era detto che ero brava e non avrei avuto problemi, invece altri sono meglio di me e non riesco a star loro dietro.

Mi sentivo continuamente esposta alla possibilità di sbagliare, dovevo difendermi dal rischio di fallire e di essere schiacciata, così nello zaino tenevo qualche arma: mostrare le mie parti più fragili per fare desistere chi voleva attaccarmi, rinchiudermi nel silenzio per contrattaccare in caso di offesa e contemporaneamente sentirmi superiore agli altri per il mio spiccato senso di responsabilità, non abbassarmi a spendere tempo in sciocchezze da ragazzi.

Nelle mie intenzioni non c’era di usare le armi, soltanto averle a disposizione in caso di necessità, con gli altri volevo stare bene, non fare la guerra. Avendole a portata di mano, però, ogni volta che avvertivo la paura di un attacco, le tiravo fuori e alla fine le usavo talmente tanto che non valeva nemmeno la pena riporle nello zaino, le tenevo in mano, era più sicuro! Progressivamente, per sentirmi sempre più sicura, sono scesa in trincea e lì sono rimasta.

Non sono mica brava come si crede, la mia è una maschera! Ma senza maschera, chi sono?

Non tolleravo di sentirmi aggressiva, arrogante, presuntuosa, imperfetta nell’esprimermi, frenata nei movimenti: ciò che vedevo di me non corrispondeva con l’immagine ideale cui aspiravo, e non mi piaceva.

Mi sentivo prigioniera, ormai incapace di gestire i miei sentimenti, le mie paure e i miei desideri. La rabbia verso me stessa e gli altri cresceva e non sapevo più come tenerla a freno, non volevo più fare la brava. Ma non potevo tornare, non potevo chiedere aiuto, avrebbe significato ammettere di non farcela da sola, di avere bisogno.

E, se mi mostro per ciò che sono e non mi accettano, cosa faccio? In fondo, standomene lontana posso sempre fantasticare braccia aperte e sorrisi al momento del ritorno, ma se nella realtà non è così, devo fare fronte a difficoltà aggiuntive a cui sento di non potere sopravvivere.

Sono circondata da persone, studio, gli strumenti non mi mancano ma spesso vivo il vuoto della mancanza di autenticità, l’orgoglio di farcela da sola non mi basta più ad andare avanti.

Gli arroccamenti, le maschere e i silenzi che in passato sono stati miei strumenti ora mi soffocano, ma temo che abbandonarli significhi tradire gli alleati che un tempo mi hanno sostenuto.

 

 

Vorrei tornare e ricominciare da dove il mio margine di scelta si è assottigliato. Però ho paura a mostrarmi, ho difficoltà a chiedere di essere accettata con le mie parti distruttive. Ho bisogno di nuovi alleati che possano assecondare il tramonto delle mie vecchie alleanze, ho bisogno di essere riconosciuta e accettata con le mie fragilità e i miei fantasmi; diversamente, espormi è un impegno che a volte va oltre le mie forze. In fondo, non è detto che gli alleati vecchi e quelli nuovi non cerchino la stessa cosa.