Per capire il mondo e trasformarlo | Venerdì 8 Marzo 2002 |
Edgar Morin parla del quinto volume del suo "Metodo". E sposa la causa di un sapere non frammentario
di Renato Minore
Sono molto intensi i giorni italiani di Edgard Morin, immersi in quella "dimensione mediterranea" che per lui è una vera e propria "arte del vivere, una concezione contrapposta all'egemonia del calcolo materiale e mercantile, del consumismo globalizzato". "Il Mediterraneo - confessa - mi ha insegnato l'amore per l'olio d'oliva, le melanzane, il riso con i fagioli bianchi, le polpette d'agnello, le pizze al formaggio o gli spinaci, cibi e sapori assorbiti dai miei avi in Spagna, in Toscana e a Salonicco". A Nardodipace, il comune calabrese più povero d'Italia, ha parlato di utopia come possibilità concreta contrapposta all'utopia del migliore dei mondi, della perfezione generalizzata, quella che, in Unione Sovietica, imponeva una "perfezione da caserma".
Qui a Messina l'università lo festeggia con una laurea e con un'attenzione molteplice e concreta alla sua figura di grande intellettuale del Novecento, erede diretto dello scetticismo di Montaigne e dell'enciclopedismo illuminista. Che è stato partigiano nella resistenza francese, sociologo e filosofo, storico e geografo, appassionato di cinema, di microfisica, ecologia, poesia e politica. "Non sono tra quelli che si sono costruiti una carriera, ma tra quelli che hanno vissuto una vita", così inizia uno dei suoi libri più avvincenti, I miei demoni. E Morin parla della sua ricerca mescolata con la vita che continua con passione e intelligenza, come dimostra il quinto volume del Metodo che sta per essere pubblicato in Francia (in Italia uscirà, come gli ultimi suoi libri, da Cortina). Confessa che "di contraddizioni è fatta la vita stessa: farle incontrare tra loro, produrre la coerenza, in etica come in politica, è stata una delle mie ossessioni". Prosegue spiegando che "occorre sapere sempre chi si è, dove si è e come ci si colloca rispetto all'oggetto della nostra attenzione". Così come è importante saper riconoscere gli errori e fare autocritica, "per poter proseguire nella conoscenza dell'umano che deve essere nello stesso tempo più scientifica, più filosofica e più poetica di quanto non lo sia stata finora".
Ad 80 anni compiuti, da chierico onnivoro quale continua ad essere da più di mezzo secolo, Morin ha attraversato ogni campo della mappa del sapere, rilanciando quel suo metodo, combattendo ogni forma di specialismo disciplinare per muoversi nella contraddittoria e caotica complessità della realtà in cui siamo immersi. E usando in chiave sistematica e divulgativa i fondamenti di una cultura nuova, le basi di nuovi saperi che sono richiesti da una società sempre più globale e interdipendente ma che - come spiega - "i maître à penser, per superficialità, per pigrizia, per paura e per ignoranza, hanno preferito dividere, frazionare, separare".
Professor Morin, la sua sfida è sempre quella della complessità: il metodo che supera la frammentazione delle conoscenze e ricostruisce un pensiero globale?
"La vera complessità è una sfida per lo spirito. Oggi l'uomo biologico è studiato dalla biologia, l'uomo non biologico dalla psicologia, oppure dalla sociologia e dell'economia. Abbiamo perso l'abitudine a contestualizzare, a globalizzare. Si prenda la sociologia, si deve confrontare con la storia, con l'economia, la psicologia, la religione".
In un mondo fatto di discipline, si vive in un universo composto di veri e propri compartimenti stagni senza comunicazione?
"Heidegger dice: oggi sappiamo più cose sull'umano, ma nello stesso tempo sappiamo meno cose sull'umano. Ogni acquisizione è dispersa e non organizzata in una visione coerente. Tutti coloro che lavorano all'interno di un pensiero frammentario non si rendono affatto conto della loro totale incapacità a capire e pensare la complessità".
Dunque: un pensiero complesso (insieme unità e molteplicità) per esaminare i rapporti tra scienza e scienza, tra scienza e filosofia, tra letteratura e morale?
"Il destino dell'umanità dipende anche dal modo di pensare la realtà umana. C'è il vecchio umanesimo, quello per cui l'uomo deve essere il maestro del mondo, deve conquistare il mondo. Questo umanesimo non ha più senso: oltretutto, se vogliamo giocare a fare i demiurghi, distruggiamo la terra. Non possiamo seguire uno sviluppo quantitativo accelerato. Il mio umanesimo è quello della fragilità umana, una condizione esistenziale che ci accomuna e che riconosce a tutti, senza distinzione di razza e di sesso, gli stessi diritti. Oggi si cominciano a scoprire i sistemi naturali, come il sistema-mondo o il sistema-terra, fino al sistema-vita, alla biosfera. Se il nuovo secolo marcerà a dovere, dovremo superare ogni visione frammentaria".
La sua "società della conoscenza" offre un orizzonte al sistema scolastico. Bisogna formare individui capaci di apprendimento continuo per rispondere ai mutamenti permanenti dei processi produttivi. Dunque: uno dei campi della sua teoria è quello dell'educazione?
"Il mio lavoro sul metodo ha conseguenze sulla valutazione dell'insegnamento dove spesso è completamente dimenticato il problema fondamentale: la condizione umana. Molte cose, che si dovrebbero insegnare, non si insegnano affatto. Bisogna insegnare la conoscenza della conoscenza, la condizione planetaria dell'umanità. Insegnare l'incertezza, il destino umano. E ancora l'incertezza della storia: non sappiamo domani cosa sarà del mondo".
Il suo progetto educativo si riassume nella frase di Montaigne: una testa ben fatta è meglio di una testa ben piena. Lei dice che bisogna ripartire da uno sguardo d'assieme, puntare sulla curiosità, sul rischio, sulla sagacia di chi insegna e di chi impara?
"Per pensare localmente e padroneggiare discipline particolari si deve pensare globalmente, avere la padronanza del contesto generale. Solo un pensiero che unisce e interconnette aiuta a comprendere. Gli insegnanti non debbono assomigliare a quei lupi che marcano il loro territorio con l'urina e mordono quelli che lo violano. Ciò che è più temibile per loro è la mancanza di eros che, come dice Platone, è allo stesso tempo desiderio, piacere e amore, desiderio e piacere di trasmettere amore per la conoscenza e amore per gli allievi".
L'etica in questo senso è ancora la sua magnifica ossessione?
"Ci uniamo perché siamo tutti naufraghi. Ma non possiamo dimenticare o ignorare di vivere in un luogo bellissimo, che potremmo addirittura rendere più bello trovando un'intesa con la natura invece di distruggerla. Il vero problema è sapere se l'umanità, nel suo insieme, sarà in grado di costruire in futuro una vita comune. Se sarà capace di accettare il proprio destino".