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«Sì, esiste un legame tra matematica e follia»
Mercoledì 20 Febbraio 2002

di DANIELE DEL MORO


GENIO e sregolatezza, o, sarebbe più corretto dire, matematica e follia. L'ultimo film di Russell Crowe, nella parte del Nobel per l'economia John Nash, ha riportato improvvisamente l'attenzione su un tema più volte dibattuto: quello della genialità strettamente correlata alla pazzia e alla depressione. La storia non manca di esempi famosi: Kafka, Beethoven, Schopenauer, Einstein sembrano confermare quanto scritto da Philippe Brenot, psichiatra e antropologo francese, che nel suo «Geni da legare» scrive: «L'esaltazione creatrice si ritrova spesso affiancata alla melanconia, alla depressione, agli stati maniacali». Ma è davvero così? Abbiamo provato a capire chiedendo il parere di un esperto, Luigi Chierchia, ordinario di Analisi Matematica, all'Università di Romatre, che, guarda caso, sta preparando uno studio di ricerca su un importante lavoro degli anni Cinquanta di John Nash, la teoria dei sistemi dinamici.

Prof. Chierchia, esiste un legame tra talento matematico e follia?
«In un certo senso sì. La matematica porta ad un'astrazione molto forte, ad un estraniamento dalla realtà che, in certi casi, culmina nella psicosi. La causa è nello sforzo continuo di concentrazione su un problema, è quello il motivo per cui spesso si perde il contatto con la normalità. Non a caso molti matematici, basta citare il caso di Conley, attorno ai 35-40 anni, nel pieno delle loro attività matematiche ma ossessionati delle loro nevrosi, finiscono per suicidarsi»

Il malfunzionamento di una parte del cervello libera altre capacità, insomma...
«È vero piuttosto il contrario. L'intensa fatica impiegata in un campo specifico, come nel caso della matematica, porta ad un grande effetto destabilizzante. Leonardo da Vinci, tanto per fare un esempio, aveva a che fare con studi differenziati e non si può certo dire che soffrisse di psicosi. Era un genio che rimaneva più equilibrato a causa delle sue molteplici indagini, meno astratte e più aperte».

Come si riconosce un cervello al di sopra della norma?
«Un po’ come succede in campo musicale. Un ragazzo portato alla musica intona senza difficoltà qualunque melodia, chi è portato alla matematica, parlo di talenti naturali non di geni, riguardo i quali il discorso sarebbe più complicato, risolve i problemi senza studiarli. A me personalmente, la geometria euclidea, molto logica e deduttiva, risultava molto più difficile nella spiegazione che nelle dimostrazioni».

Nel suo ultimo libro, «Il gene della matematica», Keith Devlin, basandosi sui risultati riportati da Stanislas Dehaene, stabilisce un'equazione tra matematica e linguaggio, parlando di «un innato o addirittura prelinguistico senso del numero». Il mistero dei numeri sembrerebbe di difficile soluzione ma non impossibile. Lei è d'accordo con questa tesi?
«In questo caso bisogna distinguere due livelli di matematica. Quella di base, più semplice, può essere, certamente, alla portata di tutti. Ci vorrebbe un metodo di insegnamento capace di divertire, magari, mediante lo sviluppo dell'intuito, cancellando le difficoltà di approccio che spesso a molti fanno odiare la matematica. Ma per quella più complessa non basta la certezza del parallelo stabilito tra innata disposizione alla matematica e al linguaggio. Serve un vero e proprio un salto di qualità, come nel già citato caso della musica. A strimpellare riescono un po’ tutti ma per saper suonare veramente occorrono talento e studio. La predisposizione non basta».