GAZZETTA DI PARMA |
Spoon River in carcere | Giovedì 6 Giugno 2002 |
I detenuti recitano per Fernanda Pivano e Dori Ghezzi
VIA BURLAPremiati dalla Fondazione De André tre poeti e tre narratori
di Roberto Longoni
Filtra dalle sbarre, il sole. Dalla tenda rossa cade un tramonto senza fine sul palcoscenico del teatro del carcere. Per chi abita la collina di Spoon River è il momento della veglia. Gli occhi cerchiati, a simulare lo sguardo vuoto, i vestiti malcombinati, i detenuti-attori si scrollano di dosso il lungo sonno dei morti, si stirano e seguono fino al palco il becchino storpio. Intossicati da memorie inquiete, cominciano a parlare, a recitare, a ballare, davanti agli occhi di Fernanda Pivano e Dori Ghezzi.
Sono state loro, da spettatrici, a conquistare il primo applauso di «Burla in collina», lo spettacolo allestito dai detenuti-studenti del Bodoni, con la regia del loro giovane professore, Pietro Soncini. A battere le mani sono state la riconoscenza e la stima dei detenuti, degli operatori, degli agenti della Polizia penitenziaria e degli studenti del Bodoni, invitati con il preside Pier Luigi Bo a vedere la rappresentazione dei propri compagni di scuola reclusi. Già, perché l'ingresso in teatro della scrittrice e della cantante ha aperto la pagina del prologo e ha acceso la colonna sonora.
Fernanda Pivano è colei che fece conoscere in Italia l'«Antologia», Dori Ghezzi è la moglie del poeta in musica che trasformò il capolavoro di Edgar Lee Masters nella lunga ballata di «Non al denaro non all'amore né al cielo»: Fabrizio De André. «Lo abbiamo scelto _ spiega Silvio Di Gregorio, direttore del carcere _ perché da sempre è il cantore degli esclusi, degli ultimi, che non per questo devono essere dimenticati». E nel suo nome, la Fondazione De Andrè ha indetto un concorso di poesia e narrativa tra i detenuti. Dori Ghezzi è qui per premiare i tre vincitori della sezione di poesia e i tre della narrativa.
Ma è il teatro ad avere la precedenza, con la messa in scena povera (sulla nuda pedana) e appassionata di «Burla in collina». La voce degli «abitanti della collina» scivola accanto all'acqua dello Spoon River sul fondo della sala. E' una corrente inquieta, profonda. I morti - protetti da apparenze durante la vita - ora scontano colpe nell'insonnia della coscienza, nella tomba. Come tocca ai detenuti, da vivi, in cella, giudicati dagli altri.
«Tu prova ad avere un mondo nel cuore...» recita il matto. «Sono morto in un esperimento sbagliato, proprio come gli idioti che muoion d'amore» mormora il chimico. «Perché dissi che Dio imbrogliò il primo uomo, lo costrinse a viaggiare una vita da scemo» prosegue il blasfemo. Tra una poesia e l'altra, si cita «Il suonatore Jones»: «Libertà l'ho vista dormire nei campi coltivati a cielo e denaro, e cielo ed amore, protetta da un filo spinato». Lo spettacolo si conclude con un ballo dal passo triste, un girotondo di morti, da immaginare nella nebbia.
Non può calare, il sipario che non c'è. Ma gli applausi scrosciano, abbondanti. «Una bellissima rappresentazione _ dice Fernanda Pivano _. Quando avete improvvisato, perché non ricordavate i testi, lo avete fatto con grazia. E il vostro regista ha compiuto miracoli». Poi, il pensiero va al cantore degli ultimi. «Fabrizio, queste poesie, le ha rese più umane. Pensate a "La collina", dove nella strofa dedicata ai soldati che tornavano morti nelle bandiere, ha aggiunto: "legate strette, perché sembrassero intere". Lui incarnava tutti i valori della vita. Se fosse qui, sarebbe molto contento di voi e vi trasmetterebbe il suo amore».
«Temevo una sensazione di claustrofobia, al pensiero del carcere _ dice Dori Ghezzi _. Invece, ho provato quasi la leggerezza della libertà». Il potere dell'arte, delle parole. «Fabrizio, le sue conquiste, le ha ottenute attraverso la cultura. Altrimenti, forse, sarebbe diventato come il suo bombarolo». E invece ben altre micce si sono accese nel suo cuore. «Tra le sue carte, di recente, ho trovato una frase che è diventata l'emblema della nostra Fondazione: "E poi l'amore scoppiò dappertutto"».
E' il momento della premiazione. Tra i racconti, tocca a «La casa sul lago». Mauro Macario, attore-scrittore, figlio del grande uomo di teatro, improvvisa (con il Dna dalla sua) la lettura di questa breve storia di una vita felice colpita a tradimento. Una ragazza scoppia in lacrime. Come l'autore: uno degli attori che hanno appena recitato. Tra le poesie, vince «Dall'inferno», una cronaca in versi di uno sfortunato amore per una prostituta. «Una vicenda molto deandreiana» commenta Dori Ghezzi. Ma l'autore non c'è. «E' fuori, in permesso» dice qualcuno. «Che peccato» mormora la professoressa Marina Spora. Poi ride. Per un attimo si è dimenticato da che parte dei cancelli fosse il «fuori».