PANORAMA
Se questi sono ancora uomini
19 Luglio 2002

 

di Stella Pende

Mohammed l'egiziano s'è cucito la bocca con la molla della penna biro. Le sue labbra hanno sputato sangue nero per ore. Adesso sta chiuso nella fogna delle anime, in una cella del reparto dove portano quelli col cervello spappolato. «Qui o ti ammazzi o ammazzi quel bastardo del poliziotto. Così ho pensato: la mia bocca è quella del poliziotto. È sua la pelle che sto infilzando, è lui che urla al mio posto, è suo il sangue che mi schizza in gola».
San Vittore, prigione immortale. Tomba di vivi. Carcere che da sempre dev'essere demolito, venduto, ma che non si chiude mai. Galera-paese che oggi più che mai assume l'anima e i peccati di tutte le carceri d'Italia: il sovraffollamento, il dolore, il caldo, i suicidi. La speranza. Mohammed parla tra le sbarre. La bocca tumefatta. «Per gli agenti ci sono cuori negri e cuori bianchi. Vedi quello lì? Era uno straccio ieri sera.
Ma l'hanno vestito. Io no. Mi lasciano senza mutande per farmi sentire un animale». Una coperta sventola tra due sbarre. È un sos. Qualcuno rantola, un altro vomita. E d'improvviso l'odore inconfondibile del carcere ti entra nelle vene.

Arriva il direttore, Luigi Pagano, uomo libero e liberale. Se è per questo ogni giorno lui incontra bocche cucite, gole tagliate, braccia spezzate. Morti. «Ieri si è impiccato un marocchino: il suicidio rimane la nostra vera sconfitta». «È un uomo che pensa prima agli uomini» mi ha detto di lui Gianni Fumagalli, l'educatore che sarà il regista di questo viaggio dentro il carcere milanese. Ma Pagano parla anche dei suoi successi: «Il sovraffollamento? Oggi ne abbiamo dimessi altri 100. Entro poco dovremmo arrivare a 1.100. Il che riporta San Vittore a carcere circondariale con detenuti solo appellanti. Gli altri li mandiamo a Opera e Bollate». Il direttore è il primo cittadino di San Vittore.
Ci abita perfino, prigioniero dei suoi prigionieri e di una grande contraddizione. È con passione furente il direttore di un carcere che trova inutile e ingiusto. «Ci vorrebbero pene più utili: l'uomo del delitto non è mai quello della pena. Una soluzione? La nuova legge Smuraglia. Oggi regala sgravi fiscali agli imprenditori che impiegano detenuti».

A scortarci è una giovane psicologa, Daniela Antonucci. Si arriva alla famosa rotonda: ha una cupola e un altare in mezzo. Di domenica è una chiesa per la messa, adesso è il cuore del carcere. Babele di agenti, di neri, di facce livide, di stampelle, di passi, di dolore. La dottoressa cammina dentro questa bolgia dantesca come un piccolo Virgilio invisibile. Niente può più stupirla.
Nemmeno Rahid. Un agente strizza il braccio del somalo, scalzo e quasi nudo. Il busto innaffiato di sangue. «Ho anche bevuto varechina: voglio infermeria». Poche parole e il ragazzo scompare con la testa bassa.

Nel quarto raggio ci sono l'infermeria e le celle di quelli a rischio. Ecco l'assalto dei disperati. «Ho un tumore al midollo: mi hanno dichiarato incompatibile col carcere..». Carmelo ha gli occhi pesti. Fa salassi, flebo, ma sta qui.
Il magistrato è in ferie. Pietro, diabetico, si aggrappa alla sua stampella. «Faccio lo sciopero della sete, della fame, dell'insulina da mesi. Posso morire adesso davanti a lei, lo sa? Qui entri sano ed esci malato, entri ammalato ed esci morto». L'ultimo è un signore cortese. Era tenore nell'orchestra della Rai. «Mi chiamo Serpedonti, mia madre ha novant'anni, vorrei vederla. È il suo ultimo desiderio e il mio. Il magistrato dice no: per lei è un'emozione troppo grande. Mi aiuti!». Risponde una voce senza nome. «Come fanno i giudici senza emozioni a capire quando uno si emoziona?». Il Coc (Centro osservazione criminale) è il recinto dei tossici. Parla un ragazzo con le labbra viola: «Ci tengono al guinzaglio con tonnellate di psicofarmaci: l'anno scorso c'è stato perfino un morto per overdose». Una delle dottoresse, Mara Gonevi, ribatte: «Abbiamo ridotto le dosi. C'è il metadone, questo sì: è per continuare il programma all'esterno». La «polverina», cioè la droga, a San Vittore continua a viaggiare nei desideri di questi disgraziati.

Ma anche nelle loro celle. Entra comunque: sciolta sotto i francobolli, nelle polaroid, nelle capsule dei detenuti, sotto le unghie. Sotto le croste. «Sappiamo tutto, ma qualche volta ci fregano ancora. È normale, è la galera». Gianfranco Iezzi, ispettore delle guardie, occhi cerulei e capello ondulato, sembra un divo dei telefilm polizieschi, ma in realtà sa bene che una delle micce accese della galera è la rabbia che brucia insieme agenti e carcerati: «Chi sono i veri carnefici? Loro si danno fuoco e noi entriamo nelle fiamme. Si tagliano e si sgozzano e noi li salviamo. Certo, poi devi anche difenderti». La paura? «È il nostro secondo nome».
Per arrivare al secondo piano del quarto raggio l'ispettore ci scorta per «la Svizzera», le scale del carcere, il luogo dove si fanno agguati e si regolano conti.
Il secondo e il terzo piano del quinto raggio sono i più affollati. Celle come formicai, televisioni che urlano, corpi che sporgono dalle sbarre come quelli di animali feroci. Occhi perduti. «Una furia di carne disumana» scriveva Indro Montanelli. Dodici in una cella. Il buco della turca, dal fetore preistorico, sta di fianco alla cucina.

Padre Pio vicino ai capezzoli di Moana Pozzi. Uno, cento specchietti brillano nelle mani che sventolano fuori dalle celle. È così che si vede chi arriva. Una voce: «Quello di sopra mi vomita addosso, faccia qualcosa». Un altro sbatte la testa al muro. Qualcuno mi ha chiesto di non chiamarlo inferno. Ma cos'è? Secondo piano del secondo raggio: condannati per violenze sessuali. Gianni Fumagalli, cicerone paziente, chiede: niente nomi. Bene. Tanto sono ombre odiate. Augusto ha violentato la moglie. Un vecchietto coi baffetti trascina le pantofole. Sembra un angelo in pensione: ha violentato nove bambini. La gabbia dei travestiti è un piccolo brandello di carnevale brasiliano. Tacchi, bandane, paillettes, bocche amaranto e spalle da lottatore.
Usano spray addormentanti e rapinano il cliente. Uno di loro, Valdimar Andrade Silva, scrive poesie: «Vorrei morire in un giorno di pioggia per avere le lacrime del cielo». Poi d'improvviso, ondulando, appare Alessandro. È immenso.
È il gigante dei travesta, ma ha hot pant svasati, voce da fata e braccia affettate dalle spalle ai polsi. «Che ho fatto? Di tutto. Marciapiede, rapine, ho stangato e chiuso un cliente nell'armadio. L'avranno trovato? Sono gli agenti i miei mostri. Ne ho perfino tagliato uno con la lametta. Oggi sono buono. Quelli pelosi mi piacciono addirittura». Un desiderio? Alessandro sorride: «Tornare bambino».

Nella sezione delle femmine vere c'è un'altra aria. Quella delle donne. Non sarà un caso che in galera ce ne sono 140 contro duemila carcerati maschi. Dentro il laboratorio dei costumi Paola Mazzoni, condannata per droga, parla di emozioni: «La galera amplifica il dolore e la rabbia, ma anche l'amicizia e l'amore». Fra stoffe, fiocchi e sete Maria ha un criceto che le passeggia sulle spalle e Fernanda fa la cuoca di sezione dopo aver ingoiato una ventina di ovuli di cocaina arrivando dalla Colombia. Da una cella fa capolino una signora incipriata. È un'aliena caduta dal cielo? «No, è la signora Patrizia Gucci». Davanti al nido c'è il via vai dei bambini. E dei passeggini.
In un posto dove non ci sono passeggiate. Secondo la nuova legge Finocchiaro dopo i tre anni non dovrebbero stare in carcere, ma fuori con le loro mamme agli arresti domiciliari. Le leggi buone fanno fatica a esistere. «Il bambino ce l'ho qui perché tutta la mia famiglia è in carcere: mia madre, i miei quattro fratelli e le mie cognate». Angela ha una faccia fresca ma la sua è la famiglia mafiosa più importante della Calabria. La madre, una vecchina col respiro corto, pare la nonna di Cappuccetto rosso. Ma il lupo lo ha mangiato lei. Anzi, deve averne mangiati cinque o sei.

Il penale, luogo di detenuti definitivi, è il regno della vecchia e mitica guardia. Intorno a un tavolo un vero gentiluomo: camicia Ralph Lauren, mocassini Tod's, una quasi laurea in scienze politiche, due diplomi in informatica: più di vent'anni per spaccio internazionale. È Maurizio Agosta. «Ho usato bene il mio tempo, ma quando uscirò la parte più bella della mia vita sarà andata». Stessa colpa per Santino Stefanini, uno dei pezzi forti della banda Vallanzasca passato dal Beccaria alla galera vera. Per sempre. «Sono evaso due volte e due volte mi hanno beccato». Pino dipinge donne e furori che si ammirano sulle pareti dell'atelier di San Vittore.
Proprio come Marco Medda, l'ergastolano mito. Qualche omicidio di cui l'ultimo in galera. Tra loro una faccia familiare. Troppo. «Come sta De Bortoli?». Panico. È proprio Diego, vent'anni fa tipografo al Corriere della sera. Scriveva poesie, poi un giorno ha accoltellato la moglie. Diego era un angelo. Così sembra rimasto. Come si fa a condannare un uomo per cinque minuti di follia? O a non condannarlo?

Di fianco al penale la redazione de Il due notizie. Qualcosa che ogni carcere vorrebbe avere. «Prima c'era Magazine 2, il periodico che si è conquistato perfino un premio nobile come Il Premiolino. Adesso c'è questo foglio che raccoglie tutte le news del carcere. Qui con la tivù si sa tutto del fuori e niente del dentro. Chi voglia sapere del nostro dentro può cercare sul sito www.ildue.it».

Emilia Patruno, giornalista di Famiglia Cristiana, è direttore volontario di un drappello originale di giornalisti. Francesco Ghiringhelli, ex brigatista, Sisto Rossi, autore fra l'altro di Piccole celle in legno, Ivano Longo dichiarato, inutilmente, incompatibile col carcere per sieropositività e per intelligenza. E molti altri. In preparazione il cd con le ricette e la cucina del carcere.
Titolo: Avanzi di galera. A pochi metri dalla redazione, il laboratorio di pelletteria dove il direttore Luigi Pagano e la cooperativa Ecolab hanno fatto davvero l'impossibile: 12 detenuti artigiani e pagati in busta paga. Quindicimila pezzi ordinati solo dal gennaio all'aprile del 2002. Clienti di lusso. Da Armani jeans all'Inter di Massimo Moratti. Ad altri. Ma di luci l'inferno di San Vittore è pieno.
C'è il laboratorio del vetro che Santo Tucci e Tihomir Lozzina hanno fondato con la piccola cooperativa Ali; c'è la bottega di falegnameria, ci sono 280 volontari. C'è il terzo raggio completamente restaurato con docce nelle camere e biblioteche e sale computer. C'è il sogno di Pagano. E di molti come lui: un carcere senza il carcere.